MEMENTO

 

Roberto Balzani, docente di Storia contemporanea Università di Bologna:

Alteo Dolcini è uno degli ultimi grandi creatori della memoria culturale romagnola nel XX secolo. La sua straordinaria capacità di rifondare la tradizione (e, in alcuni casi, di inventarla) ha costituito il filo rosso di un’attività inesausta, sorretta da una straordinaria vivacità intellettuale, che lo pose sulla scia degl’iniziatori all’alba del Novecento: gli Spallicci, i Martuzzi, i Balilla Pratella: l’ambiente, insomma, che, fra il “Plaustro” e la “Piê”, fra il 1911 e il 1920, raccolse, plasmò e rielaborò quella che – ancor a distanza di un secolo – consideriamo la cultura romagnola. Ebbene, Alteo, partendo da questa base di riferimenti e di stimoli, avrebbe ulteriormente perfezionato e sviluppato, anche in contesti economici e sociali nuovi, ciò che, fino al 1945, ancora doveva apparire come un’insieme di suggestioni puramente letterarie, dialettali, artistiche.

Egli, attraverso il Palio del Niballo, il Tribunato, la battaglia per l’identificazione dei confini romagnoli e tante altre imprese, ebbe la capacità di calare il tema romagnolo nel vissuto di una società – quella degli anni Sessanta – in rapido mutamento. In alcuni casi riuscì ad intercettare sensibilità insospettate (si pensi al Palio, la tradizione inventata più importante della Romagna della seconda metà del Novecento), che gli permisero di radicare il suo disegno e di renderlo permanente; in altri, i progetti restarono patrimonio di élite. In ogni caso, tuttavia, Alteo Dolcini fu davvero una personalità eminente della sua regione, così come, all’inizio del XX secolo e sempre a Faenza, Gaetano Ballardini. Fra queste due vite si è giocato il destino e la fortuna di una città: di qui l’importanza d’iniziative che ne restituiscano, fresca e intatta, la memoria.

Roberto Balzani

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Antonio Patuelli, presidente Associazione Bancaria Italiana:

Alteo Dolcini è stato innanzitutto un intellettuale con forte radicamento in Romagna e una ricerca di orizzonti culturali internazionali fortemente connessi alla cultura della solidarietà occidentale molto caratteristica dei decenni innanzitutto della ricostruzione e del miracolo economico italiano. Dolcini ha sempre operato dal suo osservatorio privilegiato faentino vissuto come un crocevia di poliedriche sensibilità culturali fra la Ravenna bizantina, la Firenze non solo letteraria e la Bologna universitaria degli anni più prosperi. 

I colori delle ceramiche faentine erano per lui solo un simbolo di pluralismi, di sensibilità culturali e di ricerca di occasioni di amicizia e di valorizzazione dei prodotti tipici della Romagna, a cominciare dall’agro-alimentare.

Fin da ragazzo, innanzitutto tramite il Resto del Carlino, ho sentito parlare delle tante attività di Alteo Dolcini che era ben conosciuto anche da mio Padre, il prof.  Vincenzo Patuelli, Ordinario di Economia e Politica Agraria dell’Università di Bologna e che viveva con grandi passioni anche le vicende dell’evoluzione agricola e agro-industriale innanzitutto romagnola.

Poi fu lo stesso Dolcini a coinvolgermi, nei primi anni Ottanta, in alcuni degli organismi che aveva fondato e che animava e che rappresentavano e rappresentano innanzitutto cenacoli di cultura e di amicizia.

Ricordo la grande vivacità intellettuale e le spiccate capacità organizzative di Dolcini che rappresentano tuttora un modello di costruzioni di relazioni trasparenti e propositive, sempre alla ricerca dell’ulteriore qualità sia nelle relazioni intellettuali e personali, sia nelle produzioni tipiche romagnole.

Per tutte queste ragioni il ricordo di Alteo Dolcini è fortemente vivo.

Antonio Patuelli

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Vittorio Emiliani, giornalista e scrittore:

Credo che Alteo Dolcini sia stato negli anni il più grande, instancabile, fantasioso animatore della cultura che si rifà alle migliori tradizioni romagnole. Col Tribunato dei Vini, con l’Ente Vini Romagnoli ha creato, a cominciare da Bertinoro, la rete delle Case ospitali dalle quali diffondere i prodotti più “schietti” dell’agricoltura e dell’artigianato artistico romagnolo. Pochi si sono battuti come lui per ravvivare quella memoria raccogliendo testimonianze d’ogni genere, favorendo mostre e musei “vivi” della tradizione. Sono convinto che, se fosse stato ancora fra noi, avrebbe evitato la chiusura del Museo etnografico di Forlì, probabilmente il più ricco d’Italia. Non c’era idea promozionale a favore della Romagna più autentica che non lo trovasse subito entusiasta. Va ricordato, con le parole, con gli studi, coi fatti.

Vittorio Emiliani